
Il tempo delle Rose di Sarajevo
Nella capitale della Bosnia-Erzegovina i fiori più importanti li trovate sull’asfalto, non profumano e ormai nemmeno si notano più, fortemente scoloriti dal tempo che passa: sono le rose di Sarajevo, testimoni silenziose del tremendo assedio vissuto dalla città per quasi quattro anni.
Tutto ebbe inizio circa ventisei anni fa, nel 1992 e i segni di quegli anni resistono.
Cara viaggiatrice e Caro viaggiatore,
le guerre sono totalizzanti e monopolizzano le identità, così Sarajevo per i non bosniaci altro non è che l’epicentro del caos alle origini della Prima guerra mondiale e un vago ricordo da telegiornale di quella di fine Novecento, l’ultima guerra conbattutasi nel cuore del continente europeo.
Oltre l’Adriatico un inferno di milizie, genocidi, strupri etnici, campi profughi, bombardamenti.
Eppure la Bosnia e soprattutto Sarajevo sono stati molto altro: crocevia di cultura, religioni e commerci, incontro di saperi e popoli, esempio di convivenza fra differenze come dimostrano le immagini che conserviamo nella memoria collettiva. Questi fotogrammi, se analizzati, ci raccontano molto di più di quel popolo e del suo contesto.
L’immagine simbolo dell’ultima guerra nei Balcani è la biblioteca di Sarajevo che va a fuoco con i suoi tesori di carta per tre giorni e tre notti; anima della città e delle sue fondamenta di sapere e civiltà. Una biblioteca simbolo dell’annientamento totale causato dalle guerre.
Sarajevo era uno stupefacente e brulicante luogo di incontro tra oriente e occidente; in una manciata di metri è possibile incontrare chiese ortodosse, moschee, una cattedrale cattolica, una sinagoga, in perfetta e discreta armonia con i vicoli stretti del centro antico di origine ottomana o con i viali più ampi di impronta asburgica di fine ‘800.
Una città fondata dai turchi nel XV secolo in una vallata stretta e lunga, incisa dal fiume Milijaka e che si srotola come un serpente fra alte montagne.
Proprio questa sua conformazione favorì il lunghissimo assedio che dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996 ne stremò gli abitanti.
1452 giorni interminabili di stragi e stenti; settimane di proiettili che bucano i muri uccidendo negli ambienti privati; mesi di quotidianità strappata alla mira dei cecchini, che giocavano con la vita di uomini, donne e troppi bambini nell’enorme e perfetto poligono di tiro che è la parte moderna di Sarajevo, sempre bersagliabile da chi era appostato nelle montagne attorno.
L’angoscia dell’assedio può essere ascoltata da testimoni, ricostruita dai vecchi servizi giornalistici e dalle pagine di storici ma solo percorrendo la Ulica Zmaja, il Viale dei Cecchini, la precarietà della sopravvivenza si manifesta. Basta fare caso ai piccoli buchi nei marciapiedi di Sarajevo, circondati da fori più piccoli che si aprono a raggiera come petali, tutti riempiti di resina rossa.
Sono ovunque.
Sono i fori lasciati dai mortai dei soldati serbi che gli abitanti sopravvissuti hanno voluto conservare e mettere in risalto.
E’ l’asfalto dell’assedio e lì qualcuno è morto.
Le Rose di Sarajevo, come vengono chiamati questi presidi della memoria, raccontano dello strazio di una guerra – totalmente subita dalla città – meglio di qualsiasi museo. Ti ci imbatti mentre fai shopping, mentre bevi il tuo aperitivo in un bar con i tavolini all’aperto, mentre vivi.
Ma la memoria, lo sappiamo, va curata e le rose andrebbero ridipinte, poichè stanno sparendo sbiadite dalle intemperie, dai passi, dal tempo e forse dall’indifferenza.

Una Rosa di Sarajevo, foto G. Bigi

Vijecnica, la biblioteca di Sarajevo ricostruita, foto G. Bigi

Edificio di Sarajevo oggi con i segni dei colpi di mortaioo, foto G. Bigi

Monumento ai bambini di Sarajevo morti nell’assedio o, foto G. Bigi

Foto simbolo dell’assedio di Sarajevo, foto Museo dell’Assedio

Una Rosa di Sarajevo sbiadita, foto G. Bigi
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