Il sapore della storia: dallo “Sfratto” al Ghetto di Roma
Oggi, 16 ottobre 2018:
Prendete 500 grammi di farina e uniteci 2 uova, 3 cucchiai di zucchero, 50 grammi di burro fuso, 100 millilitri di latte, 1 pizzico di sale, dei semi di anice e un bicchierino di brandy, impastate fino ad ottenere una pasta frolla morbida che lascerete riposare mezz’oretta in frigorifero.
A parte spezzettate 600 grammi di noci, uniteci un pizzico di cannella e uno di noce moscata assieme a scorze di arancia, limone e mandarino tritate. In un pentolino scaldate del miele a cui unirete il composto di frutta secca cuocendolo per altri dieci minuti.
Prendete dunque la pasta, dividetela in sei parti e formate dei triangoli in cui arrotolare parte del ripieno formando dei cilindri che infornerete a 180° per 15 minuti e, infine, a 200° per cinque.
Ecco pronti e fragranti sei “sfratti”, un dolce tipico della zona di Pitigliano in Toscana, ancora oggi molto diffuso e apprezzato. Tipico ed ebraico, perché in questa regione e soprattutto a Pitigliano c’era una importante comunità israelitica la cui tradizione culinaria è stata contaminata dalle usanze grossetane.
Lo “sfratto” è un dolce gustoso e assolutamente ironico, poiché ha immortalato nella forma e nel nome il momento in cui, nel XVI secolo, la comunità venne cacciata dalle proprie case per ordine del Granduca Cosimo II de’ Medici, con l’obbligo di trasferirsi nel ghetto di Pitigliano; ordine annunciato da messi ducali che bussavano alle porte degli ebrei con un bastone detto da allora lo “sfratto”.
I profughi a Pitigliano ingrossarono le fila della comuità che già dal ‘500 vi si era rifugiata dopo l’espulsione dal vicino Stato Pontificio, proseguendo una pacifica convivenza con gli abitanti del borgo che diviene noto nei secoli successivi come “Piccola Gerusalemme”.
Come sappiamo ricordare per il popolo della diaspora è fondamentale alla propria sopravvivenza attraverso le epoche, e se la tradizione scritta e orale del racconto è centrale alla cultura ebraica, è la cucina il luogo in cui universalmente si fissano usanze, tradizioni e incontri, commistione che nello “sfratto” è evidente.
Utilizzando il cibo come punto di osservazione della storia dei territori è impossibile non riscontrare traccia di uno scambio antico con le comunità ebraiche italiane: dai Carciofi alla giudia rinomati a nel Lazio – tanto da essere anche conosciuti come Carciofi alla romana- alla Minestra di lenticchie di Esaù, che ricorda una ricetta citata nell’Antico Testamento.
Queste tracce raccontano di convivenza e scambi che, in conseguenza della politica razzista del fascismo dal 1938 in poi, ha oggi in molte città della penisola solo un sapore d’esotico, di passato, essendo venute meno le comunità ebraiche che animavano paesi e botteghe, annientate dalla deportazione.
Era il 18 settembre 1938 quando Benito Mussolini, dalla piazza Unità d’Italia di Trieste, annunciò le Leggi per la difesa della razza, una serie di limitazioni e discriminazioni che negli anni si fecero sempre più soffoncanti, fino alla persecuzione delle vite dei cittadini di origine ebraica. Ed era il 16 ottobre 1943 quando l’antico ghetto di Roma venne rastrellato dalle SS, le quali catturarono 1.024 persone – tra cui oltre 200 bambini – e le deportarono ad Auschwitz.
Tornarono in sedici.
Della Shoah e di una delle pagine più aberranti della storia italiana – il razzismo di Stato – troviamo traccia nelle targhe affisse su Sinagoghe cadute in disuso, nei nomi delle vie che ricordano vittime, nelle Pietre d’Inciampo che tentano di contrastare l’oblio. Insomma: delle leggi di esclusione e persecuzione non rimane che orrore.
Se invece pensiamo all’incontro di lingue, sapori, colori e tradizioni incontriamo piatti gustosi e insoliti; incontriamo vita e dinamismo evidente nelle architetture dei luoghi, nelle opere di artisti e nell’impegno civile di quanti contribuirono alla crescita sociale ed economica delle comunità in cui vissero.
Ricordando, nell’anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, quel tragico momento del ‘900 non resta che sottolinearne l’assurdità, evidenziando il grigiore della violenza e paralallelamente mettere in risalto quanto l’incontro e l’accoglienza nella storia abbiano sempre prodotto innovazione.
Cara viaggiatrice e Caro viaggiatore,
Da Palermo a Venezia, passando per Roma e Firenze, ciò che ammiriamo e gustiamo è la creatività dell’incontro e in questo 75° anniversario del rastrellamento nella capitale non vogliamo ricordare unicamente la paura e il baratro ma ciò che si perde escludendo e isolando.
Vogliamo ricordare la vita partendo dai luoghi intimi come le case i cui quei deportati abitavano; dalle piccole cose come la farina impastata col miele in una piccola oasi quale Pitigliano o il calore della solidarietà di un giusto nel mezzo della guerra mondiale, perché “chi salva una vita salva il mondo intero”.
Targa del ghetto di Roma Foto di Scazon CC BY-SA 2.0
Pitigliano vista notturna Foto di Gianfranco Vitolo CC BY-SA 2.0
Vicolo, Pitigliano Foto di Gianfranco Vitolo CC BY-SA 2.0